Un sogno che si realizza!
Avevo 12 anni quando sentii parlare per la prima volta del Jamboree. Ero al mio primo anno di reparto e già da allora cominciai ad assillare Stefano, il mio capo di allora, per farmi iscrivere.
Passati 3 anni eccomi qui a parlare del mio sogno realizzato. Nel corso di quei 15 giorni ho finalmente compreso appieno lo spirito e i valori dello scautismo, che lì ho trovato amplificati alla massima potenza, condividendoli con fratelli da tutte le parti del mondo. Ho imparato che la visione di scautismo varia da paese a paese, ma ogni declinazione di esso è arricchente e bella perché alla base c’è un’unica promessa, che mette in primo piano i valori della lealtà e dell’aiuto reciproco. Mentirei se dicessi che ci sono stati solo momenti belli. È stata un’esperienza faticosissima, vuoi per il caldo o vuoi per le condizioni igieniche non ottimali, ma non per questo è stata meno bella. Nei momenti di sconforto bastava scambiare una parola ai lavabi con un ragazzo australiano o arabo o taiwanese e scoprivi di non essere solo, che anche a loro non piaceva il fritto di prima mattina e che anche loro faticavano a montare i loro alzabandiera con il caldo tropicale dell’Asia a mezzogiorno. I ricordi più belli che ho del Jamboree sono sicuramente le feste di sottocampo. Ogni paese si riuniva di sera sotto al palco comune e presentava un ballo, un ban o una canzone della propria nazione, e gli altri guardandolo lo imparavano. Momenti come questi erano perfetti anche per scambi materiali, oltre che culturali. Ho scoperto paesi di cui neanche conoscevo l’esistenza, e ho trovato paesi che ero convinto non avessero alcuno scout, come l’Iraq o la Palestina. A proposito, ho avuto modo di parlare con dei ragazzi palestinesi gentilissimi che volevano regalarmi il loro fazzolettone, ma mi sentivo in colpa a non dargli niente in cambio e così gli ho scambiato il mio fazzolettone di gruppo. al Jamboree ho capito come è semplice adattarsi e diventare una cosa sola con persone con cui pensavi di non avere niente in comune. Ho un bellissimo ricordo del contingente Dominicano, che non avendo abbastanza scout si è dovuto aggregare a quello austriaco, altrettanto esiguo di numero. Dopo pochi giorni quelle persone che a prima vista sembravano non avere niente in comune, sono diventate migliori amiche e entrando nel loro accampamento le trovavi a cucinare insieme mentre ballavano il merengue. Peccato che dopo una settimana siamo stati tutti evacuati per un tifone tropicale, e così l’ultima sera al campo l’ho passata da solo con dei ragazzi inglesi, che piangevano perché non volevano che finisse così presto dopo lunghi anni di attesa. Abbiamo cantato e suonato un po’ di canzoni per goderci gli ultimi momenti di autentico Jamboree. Potrei continuare a scrivere per ore, però l’ultima esperienza che voglio raccontare è quella del cultural day, dove con i miei compatrioti abbiamo dovuto rappresentare l’Italia davanti al resto del mondo. Ci siamo messi in moto da subito, cuocendo pasta e realizzando cartelloni per insegnare qualche parola in italiano agli stranieri. È stato bellissimo perché eravamo tutti fomentati dai complimenti della gente, a cui era piaciuta particolarmente la pasta al pesto e i giochi organizzati all’interno del nostro gazebo. A turni ogni squadriglia, finito il proprio turno, poteva girare e andare al gazebo di un altro paese, ad assaggiare un pezzo della loro cultura. È stata l’esperienza più bella della mia vita e credo che nessuna mai la eguaglierà. Ci penso spesso e rimpiango quei momenti di comunione fraterna, che mi hanno dato tanto e che spero di trasmettere anche in minima parte alle persone che ho vicino
Pietro La Pera
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